Chemioterapia e neurotossicità: chi rischia di più, quali sono i segnali e come si può gestire

Oltre la metà dei pazienti che è stata curata con alcuni tipi di farmaci soffre di deterioramento cognitivo, disturbi di concentrazione e memoria, problemi di equilibrio e neuropatia periferica. L’indagine della Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia

Ne soffrono quasi tutti i malati oncologici, ma ancora pochi riescono a chiedere e ricevere aiuto per alleviare gli effetti collaterali dei trattamenti anticancro. Se durante le terapie spesso questi aspetti vengono monitorati e affrontati con i medici, le cose si complicano sul lungo periodo. Proprio quando, in realtà, le cure finiscono, le aspettative migliorano, i malati tornano alla loro quotidianità e pian piano si diradano i controlli. Uno dei problemi più sottostimati e più diffusi è la «neurotossicità» collegata alla chemioterapia, alla quale è dedicato un intero capitolo dell’ultimo «Rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici», presentato durante la Giornata nazionale dedicata ai malati di cancro promossa dalla Federazione delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo).

I sintomi

«Parliamo, in pratica, di deterioramento cognitivo e neuropatia periferica che, in base alla nostra indagine, interessano ben oltre la metà e fino al 70% delle persone che hanno concluso le cure da anni — spiega il presidente Favo, Francesco De Lorenzo —. I sintomi maggiormente diffusi sono difficoltà nella manipolazione di oggetti di uso comune, disturbi dell’equilibrio, dolore, facile affaticabilità, difficoltà nella concentrazione e di memoria. Effetti che oggi finalmente conosciamo e che sappiamo possono persistere dopo la fine dei trattamenti con un impatto sulla salute di moltissimi lungoviventi, sulle loro attività personali, sociali e lavorative e sul benessere psicologico». Il capitolo nel Rapporto Favo 2023 nasce da un’indagine che l’Università di Milano-Bicocca e l’Associazione italiana malati di cancro, parenti e amici (AIMaC) hanno condotto e pubblicato sulla rivista scientifica Toxics . Cosa sono, di preciso, deterioramento cognitivo e neuropatia periferica? «Molti pazienti si accorgono di un calo nelle proprie prestazioni cognitive, per esempio con disturbi di concentrazione e memoria, che possono interferire con le comuni attività della vita quotidiana o con le richieste della propria attività lavorativa — risponde Guido Cavaletti, che dirige l’Unità di Neurologia sperimentale all’Università di Milano-Bicocca, dov’è anche prorettore alla ricerca —. I danni a carico dei nervi periferici riguardano invece quella componente essenziale del sistema nervoso che mette in comunicazione l’encefalo con tutto ciò che rappresenta il mondo esterno a noi».

Possibili rimedi

In particolare, molti farmaci determinano un deterioramento della percezione sensitiva, che può condizionare funzioni molto importanti quali l’equilibrio o la manipolazione di oggetti. Adesso che il problema è emerso, si possono finalmente studiare nuove soluzioni mirate. «Ci sono molte ricerche attive su questo fronte e già oggi, a seconda del quadro clinico di ogni persona, si possono prescrivere antidolorifci o una specifica riabilitazione — sottolinea Cavaletti —. L’esercizio fisico è un aiuto prezioso, tanti trovano giovamento con agopuntura o yoga». Un’altra possibilità è ridurre la chemioterapia che provoca i disturbi, bilanciando però il fatto che possa poi essere meno efficace contro il tumore. Che dire a chi ne soffre? «Parlarne con lo specialista (oncologo o ematologo) è il primo, fondamentale, passaggio — conclude Alessia D’Acunti, psicoterapeuta AIMaC —: i pazienti devono ricevere informazioni chiare e precise riguardo ai possibili effetti neurotossici delle loro cure, anche al fine di poter cogliere i segni più precoci della loro comparsa e di conseguenza gestire al meglio il trattamento (per esempio, e se possibile, modificando il piano di terapia). Il ruolo del neurologo è importante specie nei casi più complessi, per poter dare suggerimenti utili».

Chi rischia di più

Tra i farmaci più gravemente neurotossici ci sono i derivati del platino (cisplatino e oxaliplatino), alla base del trattamenti di tumori testicolari, ovarici e del tratto gastroenterico; i taxani, utilizzati per il cancro al seno; i derivati della vinca (come, per esempio, vincristina e vinblastina) per la cura di leucemie e linfomi; gli inibitori del proteasoma, che hanno radicalmente migliorato la terapia del mieloma multiplo. «Anche la radioterapia, persino a distanza di diversi anni, può dare effetti neurotossici gravi — spiega Cavaletti —, ma si presentano in modo diverso e peculiare, essenzialmente legato alla dose di radiazioni cui i tessuti sani vengono esposti (soprattutto l’encefalo è sensibile, in caso di trattamento di tumori cerebrali)».

L’indagine

La maggior parte degli interpellati per la nuova indagine lavorava al momento della diagnosi del cancro e, a causa della neurotossicità, il 68% ha riferito difficoltà nello svolgimento delle normali attività lavorative; il 30,4% ha dovuto cambiare attività, per il 28,4% i sintomi hanno ostacolato la carriera; il 35,5% è passato dal tempo pieno al part-time e il 25,6% ha riferito di aver subìto comportamenti ostili a causa delle proprie condizioni di salute. «Nonostante più dell’80% degli intervistati abbia riferito di avere un atteggiamento positivo nei confronti della propria capacità di affrontare il cancro, molte persone hanno riferito di soffrire sempre o spesso di cambiamenti di umore (principalmente irritabilità, tristezza, paura e perdita di interesse per i propri hobby) — dice Elisabetta Iannelli, vicepresidente di AIMaC (Associazione italiana malati di cancro) —. E il 20-30% si sente sempre o spesso solo e arrabbiato. Meno della metà dei pazienti (42,6%), però, ha ricevuto informazioni utili e dettagliate sulla gestione della neurotossicità».

 

 

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